MARVELIT. PRESENT:

 

#58

 

BECOMING #3

 

Di Yuri N. A. Lucia

 

 

Sull’Oceano Atlantico, su un volo di linea della Pan Am. Giovedì ore 1.17 p.m.

 

 

Lo sceriffo dell’aria Mark Conroy, il poliziotto Guy Baxter e Peter Parker si scambiarono un occhiata piuttosto preoccupata per poi tornare di nuovo a concentrarsi sul giovane mutante che si era messo ai comandi del gigante d’acciaio che correva il rischio di schiantarsi.

“Tra poco la torre si metterà in contatto con noi, cerco di dire in tono rassicurante quello sono andati a chiamare un esperto in queste cose.”

“Ci sono esperti in queste cose? Speriamo che non sia come quelli dell’Aereo più pazzo del Mondo…” quasi subito Peter si era pentito di essersi lasciato scappare una simile battuta in quella circostanza. Pareva terribilmente fuori posto ma gli altri presenti reagirono con un sorriso. Con la coda dell’occhio guardò il portello d’emergenza. Per uscire aveva dovuto strappare la sua stessa tela e poi, dall’esterno, aveva cercato di fissarlo meglio che poteva. Se si fosse aperto all’improvviso… rabbrividì e tentò di non incolparsi per quanto era accaduto. Le opzioni che aveva avuto davanti a sé non erano molte. Quando erano entrati nella cabina, precedentemente sbloccata dall’interno dal Ragno, i tre avevano pensato ad un litigio tra i due terroristi finito male.

“Sei sicuro di saper pilotare un Boeing?” Fece Conroy tornando a fissare dubbioso il giovane mutante.

“Si.” Fu la secca risposta.

“E come mai?”

Non ci fu risposta. Fu Baxter a provvedere al duro silenzio dell’altro.

“È stato addestrato a pilotare diversi tipi di veicoli. Faceva parte di un organizzazione eversiva internazionale.”

“L’Organizzazione per i Diritti dell’Homo Superior non è un gruppo terroristico.” Protestò senza celare la prorpia rabbia.

“Neanche Al Qaeda lo è. Almeno se lo chiedi a Bin Laden.” Ribatté sprezzante l’altro.

“Ok, ok! Intervenne Peter per stemperare l’attrito che evidentemente esisteva tra i due Abbiamo capito entrambi i punti di vista ma al momento vi ricorderei che questo non è certo la situazione, né il luogo adatto per dare il via ad un diabattito di tipo politico. Ragazzo, se dici che sai far scendere questo coso, io ti credo.”

“Fai bene a fidarti di me. Peter, vero?”

“Si. Tu ce l’hai un nome?”

“Leonard Jr. Len per gli amici.”

“Un nome importante. Jr perché anche tuo padre si chiamava così?”

“Si.”

“Parli bene l’americano ma hai un accento strano. Sembri orientale.”

“Padre statunitense, madre vietnamita.”

“E da lì che vieni? Dal Vietnam?”

“Si.”

“Tuo padre era un soldato?”

“Un disertore.” Asserì senza nessun imbarazzo.

“Anche io ero nel ‘nam, si inserì nella conversazione Conroy facevo parte dei Rangers. Buon Dio, i disertori non mi sono mai piaciuti ma sarei un ipocrita se dicessi che non capisco il tuo vecchio. Ho visto cosa che mi hanno fatto vacillare anche a me più di una volta.”

“Grazie per la solidarietà.” Le parole erano state pronunciate senza sarcasmo.

“Allora, adesso possiamo parlarci seriamente. Incalzò lo sceriffo.Tu questo coso lo sai o no far atterrare veramente?”

“Il tuo collega non ti ha detto che sono stato addestrato a far volare diversi tipi di apparecchi?”

“C’è anche questo tra quelli?”

“Certamente.”

“Perfetto. Si tratta di pratica o è solo teoria?”

Alcuni secondi di silenzio. Un sospiro non trattenuto e nuovamente i tre uomini tornarono a guardarsi preoccupati.

 

 

Nuova Installazione Scientifica Segreta del P.H.A.D.E., progetto Change 2, località segreta nello Stato di New York – Giovedì ore 7.00 a.m.

 

 

Toninev ingollò quasi a forza il caffè contenuto nella tazza di raffia verde stretta spasmodicamente per quasi mezz’ora nella sua mano. Il suo contenuto, ormai freddo, non era peggiore di quando era stato caldo ma del resto non poteva certo lamentarsi per la scarsa qualità della bevanda. Non con tutto il lavoro che c’era da fare e non dopo tutto quanto quello che era successo.

Dopo la sottrazione degli unici tra campioni esistenti di elementi transuranici sul pianeta avvenuta Martedì scorso, e dopo la sua conversazione i superiori del P.H.A.D.E. si era dato da fare per trasformare il Laboratorio D2 nella nuova sede del suo progetto. Un tempo era una base del Segreto Impero, sequestrata proprio nell’ambito di un operazione supervisionata dall’ente paragavernativo. Era un ambiente ideale. Teoricamente era smantellato quindi la sua esistenza non era nota a nessuno, nemmeno ai vertici dello S.H.I.E.L.D. o della C.I.A.

La struttura era un vero capolavoro di solidità e integrata ai sistemi di sorveglianza fornitigli l’aveva trasformata in una vera e propria fortezza. Si era dedicato freneticamente alla selezione del nuovo personale e nel frattempo si era fatto tenere al corrente su quanto stavano facendo le squadre investigative con i sospettati. Ne erano stati isolati sei al momento. Uno di loro doveva essere il bastardo che aveva quasi mandato in fumo anni di sforzi e sacrifici pensò con rabbioso risentimento.

Il reattore nucleare ed il ciclotrone purtroppo non erano ancora pronti e Leon Kavanagh, l’unico uomo a parte Faunt di cui si fidasse in quel momento, aveva una traccia ancora troppo vaga sul dove si trovassero Raabe ed i suoi uomini. La donna morta non gli era stata di molta utilità. Erano professionisti, e non avrebbero preso contatto tanto presto con i suoi famigliari, se mai l’avessero fatto.

“Hanno un loro codice d’onore ma sarà difficile risalire comunque a loro.” Aveva affermato il suo capo della sicurezza mentre lui lo guardava tra lo scettico e lo speranzoso.

Anni di ricerca, anni di osservazione sui mesoni nei raggi cosmici, un passo dal realizzare una scoperta scientifica che avrebbe potuto rivoluzionare la mappa del sapere dell’intera umanità e si ritrovava lì a bere una porcheria che pareva risciaquatura di piatti sporchi allo scopo di mantenersi sveglio.

“Direttore…” La voce di Faunt attirà la sua attenzione.

“Dimmi. Che cosa c’è?”

“Eccole i rapporti sugli esperimenti condotti nelle ore antecedenti a… all’assalto alla vecchia sede.”

Prese la cartellina di mano al giovane e si recò senza dire nulla verso la sua stanza. Attraversò il corridoio lungo il quale si affaccendavano senza sosta la sua stessa elitte di ricercatori e scienziati. Non voleva operai di nessun tipo in giro per il nuovo centro. Non riusciva più a fidarsi di nessuno.

“Merda…” mormorò mentre lo stomaco cominciava a bruciargli e si chiese se fosse stato il così detto caffè o il principio di un ulcera.

La porta davanti alla quale si era fermato scivolò di lato quando premette un contatto sulla parete grigia ed entrò in un ambiente persino più scarno e spartano di quello che aveva occupato per anni in precedenza. Rimase fermo sulla soglia ad osservare quell’ambiente alieno che pareva emanare persino un certo alone minaccioso e si scosse in preda all’irritazione. Amava pensare a sé come ad un uomo forte, privo di certi sciocchi deboli sentimentalismi eppure nelle ultime, frenetiche ore aveva scoperto trattarsi di una mera illusione. Quello che aveva lasciato non era solo una sede di lavoro ma era stata la sua casa per talmente tanto tempo che aveva quasi pensato ci sarebbe morto.

Si avviò verso il tavolo di plastica color legno e prese un foglio con calcoli e formule matematiche che passò in silenziosamente in rassegna mentre faceva una comparazione mentale con quanto riportavano i dati.

“Anche se hanno gli elementi, non possono far nulla senza questi! Esclamò improvvisamente ad alta voce, facendo sobbalzare due membri dello staff che stavano passando proprio in quel mentre davanti alla sua camera ed intenti a trasportare un pesante scatolone Chi ha commissionato il furto non vuole tenerseli per sé! Il bastardo tenterà di ricattare il P.H.A.D.E.!”

Lanciò la tazza che ancora aveva nell’altra mano contro il muro e questa andò in frantumi. Osservò i pezzi in terra e quanto rimaneva del liquido spandersi sulla moquette verdastra che con il suo colore smorto accentuava in maniera irritante il suo malumore.

Toninev si diresse verso una poltrona e vi si lasciò cadere quasi a peso morto sopra. Doveva riflettere e tentare di recuperare la calma. I suoi nervi erano stati messi a dura prova ed ora che sapeva avere come non mai il fiato sul collo dei suoi padroni sentiva la disperazione roderlo da dentro il petto. Fissò per un istante il soffitto da cui un paio di neon spandevano la loro luce e poi coprì entrambi gli occhi portandovi sopra le mani.

 

 

 

Laboratori di Ricerca E.S.U. – Mercoledì ore 12.00 p.m.

 

Gene Marantz aprì il contatto e osservò per l’ennesima volta il ripetersi del fenomeno osservato più e più volte.

“Non c’è niente da fare, fece scoraggiato non si riesce ad andare oltre i quaranta secondi.”

Kaj Klaist gli scoccò un occhiata frustrata e rispose: “Il problema risulta essere proprio la resistenza dei materiali. Non possiamo che condurre esperimenti su livelli troppo inferiori a quelli richiesti per verificare se le nostre teorie sono corrette.”

Lorenzo Lo Iacono fissava il gruppo elettrogeno davanti a sé, con aria meditabonda e cosa si agitasse in quel momento nella sua mente era difficile stabilirlo, anche per gli altri presenti che lo conoscevano da una vita.

“A cosa pensi Lory?” Chiese Ken Shigetomi alzandosi dalla sua postazione e facendoglisi dappresso.

“Penso che se non ci forniranno quanto promesso, potranno anche scordarsi la fase Iota del progetto. Per quanto mi riguarda possiamo anche chiudere baracca e burattini e tornare a casa. Non c’è molto altro da dire.”

Tutti sembravano piombare in un improvviso ed opprimente stato di frustrazione ma fu Cheng Long a squotersi per primo da quello stato esclamando: “ Vedrai che non ci abbandoneranno! Non dopo quello che siamo riusciti ad ottenere! Voglio dire, pensa solo alla nostra situazione di dieci anni fa. Nessuno di noi credeva sarebbe mai arrivato a questo punto ed invece ora siamo ad un passo dal successo.”

“La tua idea di un passo è piuttosto relativa. Se per  te un anno luce è un passo allora…” Marantz si pentì del commento avvedendosi di come l’amico e collega si fosse offeso.

 

Lo Iacono passeggiava lungo i corridoi dell’edificio “Fermi” del Dipartimento di Fisica Nuova dell’E.S.U.

Klaist era al suo fianco ed insieme imboccarono un tunnel che collegava la palazzina a quella che era una bassa struttura prefabbricata realizzata con finalità ricreative, una nota stonata nell’armonia architettonica dell’Università con la sua geometria eccessivamente squadrata e i suoi colori fin troppo smorti. L’interno aveva poco di rilassante, ancora in gran parte spoglio e permeato da una generale atmosfera di ufficialità.

Lorenzo storse leggermente la bocca e si chiese chi avesse avuto in mente l’idea tanto balzana di deputare a luogo di svago un posto tanto brutto ed incolore.

“Dieci anni fa, fece Kaj rompendo il silenzio creatosi e che da troppo, per i suoi gusti, perdurava tra di loro conobbi un giovane fisico, pieno di entusiasmo, che diceva di essere in grado di dimostrare che le teorie Kaluza e Klein erano giuste, che gli spazzi di Kalabi – Yui non erano solo una fantasia. Oggi vedo quel fisico, forse un po’ meno giovane, decisamente meno entusiasta e la cosa non mi piace francamente.”

“Dieci anni fa, rispose l’interpellato con la sua solita flemma ricordo che Toninev mi chiese di unirmi al suo gruppo di ricerca, offrendomi un ottima possibilità lavorativa. Ricordo che rifiutai. Il motivo era che accettando avrei dovuto mettere da parte le mie ricerche.”

“Toninev diceva che eri un genio. Lo sei, non c’è dubbio. Senza le tue ricerche sui muoni ed i pioni, non avrebbe mai potuto formulare la sua teoria sull’”addestramento mesonico”. Tra l’altro mi risulta che non abbia concluso gran ché. Il suo super gruppo di teste d’uovo si sciolse poco tempo dopo la sua formazione.”

“Non credo.”

“Mhh?”

“Dico che si sciolse ufficialmente. Non credo che lo abbia fatto ufficiosamente. Le sue ricerche facevano gola a parecchi enti governativi e para governativi. Sappiamo tutti e due che agenzie come l’MKUltra o lo S.H.I.E.L.D. difficilmente non avrebbero cercato di mettere le mani su uno scienziato così valente e sul suo lavoro: il tentativo di realizzare un ordigno mesonico.”

“Credi ci sarebbe riuscito?”

“Credo che fosse sulla strada buona e credo che lo sia ancora.”

“Dici che stia lavorando sotto copertura da qualche parte?”

“Si è ritirato dal mondo della ricerca anni fa. Credo sia possibilissimo. Anche noi lavoriamo in segreto se è per questo.”

“Il nostro committente però non è il Governo.”

“Per quel che ne sappiamo.”

“Oh, andiamo! Non fare il paranoico ora.”

“Tengo solo conto di tutte le possibilità.”

I due si voltarono all’unisono quando li raggiunse di corsa un trafelato Cheng. Si bloccò a pochi centimetri da loro e li fissò con un sorriso di trionfo.

“Sei impazzito Cheng?” Chiese Klaist.

“È successo qualcosa?” fece Lo Iacono.

“Date un occhiata a questo.” Passò loro una cartellina che i due aprirono, leggendo i documenti contenuti al suo interno. Scorsero per diversi secondi i fogli e le formule poi Lo Iacono disse:

“E come mai non ne abbiamo saputo nulla? Come è possibile che nessuno ce lo ha mai detto?”

“Non lo so, ribatté il cinese ma quello che è importante è che fa al caso nostro, non credi?”

“Non voglio lasciarmi andare a facili entusiasmi ma potresti davvero aver ragione amico mio. Dovremmo parlare con questo signore. Non è la prima volta che leggo il suo nome anche se non ricordo dove l’ho già visto… Peter Parker…”

 

Queens, New York City – Sabato ore 2.00 a.m.

 

La loro fatica era stata ripagata, pensò con tono trionfale Eugene Patilo che indossava il suo speciale costume da Uomo Rana.

Rintracciare il vero quartier generale della Human Family non era stato semplice ma agitare le acque e mettere paura a qualcuno dei suoi membri aveva dato i risultati sperati.

Si trattava di un vecchio cinema che in passato avevano tentato di convertire in loft quando la cosa andava di moda ma la posizione anomala, ovvero fuori Manhattan, l’aveva reso poco appetibile ai ricchi e ai radical chic della Grande Mela e i suoi locali erano stati affittati ad una associazione no profit: la Serenity; ufficialmente si occupavano di portare assistenza ai giovani problematici ma in realtà era la copertura dell’organizzazione dietro la Human Family, la stessa che l’aveva portata a trasformarsi da una semplice banda di teppisti ad un pericoloso movimento dedito a colpire i mutanti ed in generale gli emarginati.

“Hai capito i bastardi! Esclamò indignato Phantom Rider” Si travestono da agnelli per poter colpire indisturbati nei panni dei lupi quando meglio gli aggrada!”

“La cosa è persino più preoccupante Derek. Li dentro ci sono avvocati, consulenti legali, e ho visto anche qualche ex agente di polizia. I files che ci ha procurati Blue Bird sono piuttosto nutriti. Quando ho scoperto dove andavano a rifugiarsi i nostri amici le ho chiesto di fare una ricerca. Va detto che l’idea è buona: vista la natura dell’associazione nessuno si meraviglia di vedere tanto movimento di giovani nell’edificio e la zona è parecchio tranquilla. Non colpiscono mai nelle vicinanze del loro covo per non creare problemi. Sai una cosa? Prima volevo solo far sbattere in galera quella feccia ma adesso voglio anche capire chi ci sia realmente dietro tutto questo. Perché le persone la dentro danno la loro protezione a simili delinquenti? Cosa vogliono ottenere?”

“Da come la vedo io, è come se stessero provocando la comunità mutante, quasi volessero una reazione.”

“L’idea non è sbagliata. Sembra tanto anche a me qualcosa del genere. Potrebbe essere proprio questo il loro obbiettivo: una reazione violenta da parte delle loro vittime in modo poi da poterla usare contro di loro, magari mediante i media; se è così, allora stiamo parlando davvero di qualcosa di molto diverso da una semplice gang di teppisti ma di una vera e propria organizzazione con un piano preciso alle spalle.”

I due ebbero un sussulto e si voltarono quasi all’unisono.

Era stato il colpo di tosse che Blue Bird aveva usato per attirare la loro attenzione ad averli fatti saltare in quella maniera.

“Oh Signoreiddio!” Esclamò Eugene tentando di reprimere la voglia di lanciare un grido.

“Quando diavolo sei arrivata?!” Chiese risentito Derek mentre da dietro la maschera bianca la scrutava non senza risentimento.

Le sue belle labbra si incurvarono verso l’alto in un sorriso di scherno e scosse leggermente la testa, come per disapprovare il modo in cui si erano fatti cogliere alla sprovvista.

“Se fossi stata uno di quelli la dentro vi sareste ritrovati a quest’ora con un bel coltello piantato nelle reni, o una spranga affondata nel cranio. Eccolo qui: il dinamico duo terrore del crimine; un ragazzo mascherato da ranocchio ed uno da Casper. Dimmi Casper caro, la tua amica Wendy dove l’hai lasciata?” Fece, civettuola.

“La mia amica Wendy te la…” ringhiò con rabbia improvvisa che stavolta spiazzò Doroty ma subito l’Uomo Rana si frappose tra loro bloccando l’amico.

“Buono! Non mi pare il caso di lasciarsi andare a questo tipo di reazioni!”

“Già, pare esagerato anche a me per un innocuo sfottò.” Aggiunse la ragazza.

“E tu, per piacere, vedi di non peggiorare le cose. Avevi solo le migliori intenzioni, e ti ringrazio di essere venuta qui, ma prenderci così di soppiatto e poi sfotterci in questa maniera non mi sembra carino. Credevo avessimo chiarito la questione rispetto. Ora voglio che vi scambiate le scuse. Si Derek, anche tu! Anticipando le proteste dell’amico che tuttavia non rinunciò a sbuffare per esternare il suo disappunto E voglio che tu, Blue Bird, prometta di non usare più quel tono né con lui, né con me. Siamo intesi?”

Lei rimase piuttosto colpita. Aveva parlato senza alzare la voce, con calma ma decisione. Da un ragazzo apparentemente timido come lui non si sarebbe mai aspettata tanto. Nel tempo in cui i due stavano decidendo se dargli retta o no, Eugene sperò che arrivassero ad una tregua, altrimenti il loro sodalizio non solo non sarebbe durato un gran ché ma avrebbe anche potuto essere un intralcio alla missione di quella sera.

“Va bene Uomo Rana. Hai ragione tu, come sempre. Blue Bird, ti chiedo scusa per lo scatto di prima.” Dentro il casco a forma di testa di rana Eugene sorrise soddisfatto e quasi tirò un sospiro di sollievo.

“Scusami tu. Non avrei dovuto io fare un numero del genere mentre eravate appostati e poi prendervi in giro.”

Per qualche istante rimase silenziosa poi, timidamente allungò una mano verso l’altro, in un gesto di distensione, e quello decise di contraccambiare stringendola.

“Forse ora abbiamo una chance.” Pensò soddisfatto Eugene Patilo.

 

 

Paludi della Florida, non molto distante da Tampa – Sabato ore 2.00 a.m.

 

“Ho sempre amato la scena di Tampa degli anni ’90, sai? Certo, capisco che il Brutal possa essere un genere di difficile assimilazione per la maggior parte delle persone ma trovo che vi sia un qualche perverso ed irresistibile fascino tribale dietro quelle chitarre accordate in re, quei riff così semplici e dalla timbrica oscura, e quelle ritmiche così martellanti.”

Aprì il palmo della mano e lo passò a pochi centimetri dal volto di Vinicio Guitierrez che tentò istintivamente di ritrarsi sbarrando gli occhi. Il sudore correva dalla fronte riversandosi copioso sulle sue labbra. L’altro osservava con aria soddisfatta quella dimostrazione di paura nei suoi confronti. Gli piaceva, lo riempiva di un senso di fiducia in sé e nelle proprie possibilità e soprattutto soddisfaceva l’esigenza di avere un proprio posto nell’ordine delle cose.

Trasse un profondo, voluttuoso respiro assaporando con lascivia quell’istante di primordiale piacere, un piacere puro ed incontaminato che fino a relativamente poco tempo prima rispetto la durata di tutta la sua vita, non avrebbe mai immaginato potesse anche solo esistere. Non quando si aggirava lungo la via della vita perennemente insicuro e tormentato dal senso di incompletezza che pareva destinato a schiacciarlo.

La villa colonica era immersa nel silenzio di una notte calda ed umida, il silenzio in cui danzavano i predatori figli dell’erebo e in cui in pochi si decideva chi fosse degno di sopravvivere e chi no, chi fosse il forte e chi il debole.

Lui sapeva essere il più forte lì, all’interno di quell’antica proprietà. L’aveva capito non appena aveva sistemato gli uomini di guardia lungo il perimetro delle mura un tempo imbiancate a calce e ricoperte di rampicanti. Ne aveva avuto conferma una volta scavalcate e incontrato il guardiano con i sue due pitbull.

I loro latrati strazianti ancora gli risuonavano nelle orecchie mettendolo in uno stato di euforico buon umore. Si era beato della propria consapevolezza salendo le scale ed eliminando gli ultimi tirapidedi che lo separavano dal suo obbiettivo.

L’aveva trovato lì, nel grande letto a baldacchino con la spalliera in ferro battuto che tremava tutto. Al suo fianco una giovane donna, venti anni o anche meno, mulatta, altrettanto spaventata e con grandi occhi nocciola che lo guardavano supplicanti. Lui teneva un revolver Laramie tra le mani e tentò in un disperato e goffo tentativo di ucciderlo esplodendo un paio di colpi. Aveva una pessima mira ed un’aria tragicamente comica mentre cercava di difendersi come poteva. Trovò strano che un uomo con tante anime sulla coscienza come quello avesse una mira tanto pessima e mostrasse una così scarsa familiarità con le armi da fuoco.

La camera da letto era enorme e piena di bei mobili Luigi XVI, comprati da qualche grande antiquario e mirabilmente restaurati. Le pareti, che anziché essere pitturate erano coperte da una curiosa carta da parati color carta da zucchero decorata a motivi floreali, erano adornata con quadri che ad una prima occhiata sembravano essere riproduzioni di celebri opere di impressionisti. Non ne era sicuro, visto che non era un grande esperto d’arte e se ne dolse proprio in quel momento, quando se ne rese conto come per la prima volta. L’arte era qualcosa di magnifico e sublime, era l’apollineo completamento della dionisiaca febbre che pareva pervaderlo, il perfetto e simmetrico partner della propria selvaggia, antica e nuova natura.

Ora era lì, in piedi ad un passo da lui e gli era bastato allungare una mano per disarmarlo. Un unico e sicuro gesto.

“Non lo fare! Non la fare!!! Non so chi ti manda! Ma ti do il triplo se te ne vai e mi lasci vivere!!! Ho duecentomila dollari in contanti proprio in questa camera e posso lasciartene altri trecentomila in un posto di tua scelta! Non farò nessun tentativo di rintracciarti, né di scoprire chi sei!!! Nessuno scherzo!!! Io…”

“Conosci i Deicide?”

Guitierrez rimase lì, la bocca spalancata ed alcuni schizzi di saliva che gli colavano lungo il mento. Quella domanda gli aveva gelato il sangue, soffocandogli in gola tutte le proposte e le suppliche che si era ingegnato ad ideare. Non c’era nessuna avidità su cui fare leva, nessuna bramosia di danaro. Con un moto di rabbia improvviso spintonò la ragazza che era stata la sua compagnia per quella notte scostandosela violentemente di dosso e mandandola a rotolare fuori dal letto. Lei batté il gomito contro un bel comodino che era costato quattromila dollari e finì in terra, sul tappeto iraniano che copriva tutto il pavimento di noce.

Guitierrez emise un paio di gemiti e qualche singhiozzo e si andò a rannicchiare in un angolo piagnucolando. “Chi ti manda?” Chiese tentando di riprendere il controllo e di affrontare la fine in modo dignitoso.

“Da quello che capisco, gli rispose l’altro senza minimamente preoccuparsene non ti piace il Brutal Death. Peccato.”

Un unico sicuro gesto. Il palmo della mano che aderiva al suo volto. Un violento spasmo e un rantolo secco. In modo così rapido e semplice si era conclusa la vita di un uomo che pensava di aver ottenuto tutto: ricchezze, potere e rispetto; un unico sicuro gesto che inequivocabilmente dimostrava quanto si sbagliava.

Rimase a guardarlo soddisfatto. Se lo era proprio goduto quel momento.

Fece il giro del letto e si mise di fronte alla ragazza che si stava coprendo il volto.

“Puoi alzarti e andartene. Sono venuto per prendermi la vita del tuo amichetto. L’ho fatto. Tu non sei nulla per me.”

Lei lo guardò tra il diffidente e lo speranzoso e poi, senza dire una parola si alzò di scatto e corse fuori dalla porta.

Lui si diresse invece verso bagno privato di Guitierrez dove aperto il rubinetto si lavò le mani e si sciacquò il viso.

Guardò dentro lo specchio e rivolgendosi a sé stesso:

“Ha visto tutto. Non la lasceranno mai vivere. È molto carina. Un vero peccato! Spero solo che quando domani le pianteranno una pallottola nella tempia siano rapidi e non la facciano soffrire.”

 

La casa colonica era stata costruita da un grande coltivatore di frutta. Un uomo la cui famiglia era di origini olandesi e che si era arricchito in poco tempo nell’allora Nuovo Mondo. Era una costruzione imponente, come voleva lo stile di allora e nel suo profilo massiccio si intuiva il desiderio di affermazione di una generazione che aveva vissuto in un epoca di incredibili trasformazioni. Il bagliori del fuoco che ogni cosa divorava si riflettevano nei suoi occhi mentre dal ramo di un albero, lasciando le gambe dondolare, fissava la scena.

Era l’ultimo bersaglio in Florida questo significava che lo avrebbe aspettato un periodo di riposo.

 

“Che cosa?!” L’esclamazione vibrava carica di risentimento per quella che considerava una insopportabile mancanza di rispetto.

“Le consiglio caldamente di calmarsi.” Fu la flemmatica risposta che gli giunse dall’altro capo del tavolino dove erano seduti.

Era un luminoso pomeriggio a Sarasota, i drink serviti erano davvero buoni e il locale in cui si trovavano piacevole ed arredato con gusto.

“Dovrei calmarmi? Mi sembrava che i nostri accordi fossero piuttosto chiari: dopo ogni contratto mi aspetta un congedo di non meno di dieci giorni; avevo rinunciato al precedente perché mi avevate detto trattarsi di una situazione di emergenza. Mi era stato promesso che avrei recuperato i giorni che mi spettavano alla fine di questo contratto e che avrei anche avuto un extra sulla tariffa ordinaria. Ora mi chiedete di affrontare nuovamente un lavoro senza che io abbia avuto il tempo di riposarmi?”

“Le faccio una domanda: l’abbiamo mai pagata in ritardo?”

“No.” Ammise con riluttanza.

“Perfetto. Lo abbiamo fatto quando ha avuto bisogno di qualcosa che esulasse dai nostri accordi?”

“No! Ripeté esasperato Ho capito dove vuole andare a parare! La prego di farla breve e dirmi direttamente quello che vuole.”

Un sorriso sardonico si dischiuse davanti alla sua vista.

“Lei era allo sbando. Stava fuggendo lungo tutto il sud america da chi l’avrebbe messa su di un tavolo settorio per studiarla come una cavia da laboratorio. Non aveva né amici, né contatti. Ufficialmente non esisteva neanche più. Le avevano portato via tutto. Noi l’abbiamo aiutata. Abbiamo sistemato le sue faccende private. Le abbiamo dato una nuova casa e una nuova identità.

Non abbiamo mai lesinato in denaro, licenze o premi extra avendole già offerto un accordo vantaggioso. Questi sono giorni difficili per noi e ci aspettiamo un po’ di gratitudine da parte sua. Il discorso le è chiaro?”

L’altro chinò il capo in segno di sconfitta e rispose con un secco, “Si.”

“Molto bene. Ora vada alla sua camera d’albergo. Prenda lo stretto indispensabile e poi insieme andremo al mio aereo. Si parte per New York City. Le darò i dettagli durante il volo.”

Prese il bicchiere e sorseggiò un po’ di bevanda e poi lo osservò con soddisfazione alzarsi per eseguire quanto gli aveva ingiunto.

Daphne Millis annuì complimentandosi dentro per le proprie capacità persuasive.

 

 

Forest Hill, Queens, nei pressi del Water front – Giovedì ore 2.30 a.m.

 

Mary Jane guardò l’orologio e si sentì rinfrancata pensando che tra poche ore avrebbe potuto riabbracciare Peter. Era da poco uscita dalla stazione di polizia doveva aveva lasciato la sua deposizione su quanto le era accaduto. In pochi giorni aveva avuto parecchie volte a che fare con la legge e questo le riportò alla mente la spiacevole figura di Philip. Ricacciò indietro quel pensiero perché non aveva voglia di deprimersi e decise di non raccontare nulla né a Gayle, né tanto meno a Peter. Con lui voleva solo godersi un po’ di tempo libero. Solo Martin sapeva perché le aveva telefonato per questioni lavorative e, presa dal momento, si era sfogata un po’ con lui, chiedendogli però di tenere il segreto. Stava passeggiando per distendere un po’ I nervi e vicino a lei c’era Ricardo Ligeti, l’uomo che di fatto l’aveva aiutata.

Aveva l’aria tranquilla e un po’ trasognata, e si chiese se fosse un bene dare tanta confidenza ad uno sconosciuto, specie viste le sue passate esperienze. Tuttavia gli appariva incredibilmente gentile e c’era qualcosa nel suo modo di fare che ispirava fiducia.

“E poi magari è un maniaco come Cesar…” si ritròvò a considerare con amarezza.

“Mi piace proprio!” La sua esclamazione la richiamò dai pensieri in cui pareva immersa.

“Che cosa?”

“Questo quartiere. È tranquillo, pulito. Non pare nemmeno di trovarsi in un posto caotico come New York City.”

“Non ti piace la grande mela?”

“Non fa per me.”

“Di dove sei?”

“Zalaegerszeg.”

“Perdona la mia ignoranza ma non l’ho mai sentita…”

“Ungheria. Non molto distante dal confine austriaco. A dire il vero sono nato in una piccola frazione di campagna, il cui nome significa collo di volpe, o almeno così mi hanno raccontato da bambino.”

“Davvero? Da quanto tempo sei negli Stati Uniti?”

“I miei migrarono qui che avevo sei anni. Vivevamo a Rotary, nel Vermont. Posto tranquillo almeno quanto quello da cui venivo io.”

“Ti trovavi bene?”

“Mi sono trovato bene finché ci ho vissuto. A 15 anni andammo a vivere a Chicago e da lì ho cominciato ad odiare le grandi città. Troppa folla, troppo smog. Non fanno per me. Datemi una casetta immersa nel verde e vi solleverò il mondo!” Proclamò di buon umore mentre si batteva il petto, suscitando in M.J. una risata spontanea.

“Scusa, non volevo prenderti in giro.”

“Non devi scusarti. Mi fa piacere vedere un po’ di allegria.”

“Posso chiederti di cosa ti occupi?”

“Compravendita di piastrelle da bagno per conto di una azienda che ha aperto una sua figliale qui. Per un po’ dovrò stare a N.Y.C., perché stiamo trattando con dei clienti di Manhattan che a loro volta gestiscono un network di alberghi e ristoranti lungo tutto il New England e in diverse parti di Gran Bretagna, Irlanda e Francia. Mi avevano consigliato di venire qui se volevo stare un posto tranquillo. È vero che devo fare tutti i giorni un discreto viaggietto per andare da loro ma il mio benessere mentale, almeno per il sottoscritto, non ha prezzo. E tu? Sono indiscreto se ti chiedo di cosa ti occupi?”

“Oh, io… diciamo che sono nel mondo dello spettacolo!”

Si alzò un piacevole vento rinfrescante e lui scrutandola con gli occhi semi chiusi disse:

“Non dirmi che sei un attrice.”

“Veramente, si.”

“Lavori in tv?”

“Ho avuto una parte in una soap, qualche tempo fa. Ho fatto anche qualcosa al cinema ma poi mi sono orientata sul teatro e attualmente lavoro in un musical.”

“Un musical?! Tipo quelli di Fred Astaire e Ginger Roger?”

“Quasi…”

Il suo cellulare cominciò a squillare improvvisamente e scusandosi con il suo interlocutore rispose:

“Si, pronto. Sono Mary Jane. Chi parla? Oh, ciao Kaine! Come stai? Si, io bene. Si, posso raggiungerti anche subito. È successo qualcosa? Sicuro? Ok. Vengo da te subito.”

Ricardo intanto lanciò un occhio al suo orologio e si disse che a Raabe non sarebbe piaciuto affatto quanto gli avrebbe raccontato.

“Scusami Ricardo, ma un mio amico mi ha chiesto se posso andare da lui subito. Ha biosgno di me. Sei stato davvero gentile e ti sono grata per avermi aiutato con la borsetta e… senti, se qualche volta ti va di andare a teatro a vedere qualcosa, beh, eccoti il numero del mio agente. Chiamalo e digli che sei mio amico. Non preoccuparti. Lo avvertirò io. Farà in modo di procurarti biglietti per te e per la tua famiglia o i tuoi amici ogni volta che ne avrai bisogno.”

“Sei troppo gentile Mary Jane, non dovevi. Comunque grazie! Sai, è da parecchio che non vado a teatro. Credo che prima di partire approfitterò della tua offerta.”

Si strinsero la mano e si scambiarono un saluto.

 

 

Appartamento di Kaine – Giovedì ore 2.30 p.m.

 

“Grazie per essere venuto. Disse con gratitudine a Matt Murdock che si era accomodato su di una sedia So che con la storia della causa contro il Governo che stai portando avanti hai poco tempo a disposizione.”

“Non preoccuparti. Per una questione così seria il tempo lo trovo di sicuro. Chi altro hai avvertito oltre me?”

“Ho provato con Rucker ma mi hanno ripetuto un paio di volte che al momento è impegnato. Con quello che è successo al suo uomo posso capirlo. Riproverò più tardi. M.J. non era in casa e il suo cellulare sembra irraggiungibile. Stavo per riprovare quando sei venuto tu. Volevo contattare anche Johnny Storm, visto che è un amico di Peter e conosce il suo segreto.”

“Sembri agitato. Credo dovresti sedere un secondo e provare a riordinare le idee.”

“Dici? Non hai torto, anche se dire che sono agitato è voler usare un eufemismo. Ultimamente ne sono successe talmente tante di cose… ci mancava solo questa.”

“Vedrai che si risolverà tutto. Ora però devi mantenere la calma. Tua cognata non ha certo bisogno di sentirti in questo stato. Su, coraggio, prova a richiamarla nuovamente.”

“Ok. Hai ragione tu Matt. Per fortuna che io e Peter non siamo soli e abbiamo diverse persone su cui contare…” Disse mentre la tv stava mandando il servizio speciale sul tentato dirottamento di cui appena mezz’ora prima si aveva avuto notizia.

 

 

Sull’Oceano Atlantico, su un volo di linea della Pan Am. Giovedì ore 1.55 p.m.

 

L’aereo ebbe un paio di sobbalzi ma subito il ragazzo riuscì a riprenderne il controllo.

“Klencher…” Disse quasi in un sussurro.

“Come?” Chiese Peter che gli stava al fianco. Gli altri due erano tornati di la per cercare di calmare i passeggeri. Era stato proprio lui ad insistere perché si allontanassero e lo sheriffo dell’aria ne aveva capito subito il motivo, assecondandolo. La presenza del poliziotto innervosiva troppo il ragazzo e in quel frangente non potevano permetterselo.

“Il mio cognome… il cognome di mio padre è Klencher. Leonard Tang Klencher Jr. Questo è il mio nome completo.”

“Suona come qualcosa di molto importante.”

“Te lo dico perché se dovessi sopravvivere voglio che tu lo faccia incidere sulla mia lapide.”

“Perché pensi che dovresti morire? Non sei un asso dell’aviazione?” Fece dissimulando i suoi timori nel tentativo di tirare su l’altro.

“Non è per questo bestione che mi preoccupo. Per ora la situazione è buona. Con l’aiuto da terra sono convinto di potercela fare. Diciamo che sono piuttosto ottimista al riguardo. Quello che mi preoccupa è la folla inferocita di là.”

“Hanno posato torce e forconi per il momento.”

“Saranno pronti a riprenderli non appena avremo toccato terra.”

“Hai una visione piuttosto ottimistica del tuo prossimo.”

“Io si. È il mio prossimo che non ne ha una altrettanto ottimistica di me.”

“Questa è buona. Ti dispiace se me la rivendo?”

“Solo se mi paghi i diritti d’autore.”

“Certamente. Sbaglio o il tuo è un umorismo di matrice vagamente alleniana?”

“Lui non mi dispiace. Quale è il tuo film preferito?”

“Come regista o come attore?”

Peter era soddisfatto. Pareva che Len si stesse tranquillizzando e questo era un bene. Purtroppo sapeva che aveva ragione: di là ancora le acque erano parecchio agitate e c’era voglia di vendicarsi su quello che pensavano essere un complice dei dirottatori; Miranda, mentre le passavano di fianco, aveva fatto uno scatto in avanti tentando letteralmente di cavare gli occhi al giovane mutante che per tutta risposta aveva reagito in maniera inaspettatamente compassata. Aveva paura, non c’era dubbio ma in un certo senso era come se fosse abituato ad averne. Quasi ormai la diffidenza e l’odio facessero parte del suo quotidiano. Guy Baxter, poco dopo Len si era proposto come pilota, aveva espresso il suo disaccordo nell’affidare le proprie vite in mano di un soggetto che reputava potenzialmente pericoloso. Aveva preso da parte un istante Peter prima di uscire e gli aveva sussurrato: “Ricorda: è un ragazzo ma pur sempre un terrorista.”. L’Organizzazione per i Diritti dell’Homo Superior, Nazion Mutante, il Fronte di Liberazione Mutante. Tanti erano i nomi delle organizzazioni di questo tipo che si erano moltiplicate nel corso degli anni ed i cui scopi e metodi non sempre erano chiari. Anche gli X men, all’inizio della loro carriera, erano considerati terroristi alla stregua del loro nemico giurato Magneto e dei suoi accoliti, la Confraternita dei Mutanti Malvagi. Aveva sempre pensato che autodefinirsi malvagi non era una buona mossa dal punto di vista delle pubbliche relazioni. Qualche volta gli era capitato di parlare con Hank McCoy, l’X man con cui aveva più confidenza e questi gli aveva descritto situazioni di profondo disagio da parte della comunità mutante. Spesso aveva parlato di episodi di odio ed intolleranza da vera e propria pulizia etnica. Se si pensava alle Sentinelle o ai Guardiani visti in Italia era facile capire il risentimento ed il mal contento di chi possedeva il gene X. Per fortuna della Bestia e dei suoi amici c’era stato un uomo di grande levatura morale e vigore intellettuale come Charles Xavier ad incanalarli verso obbiettivi positivi ma non tutti avevano avuto questa fortuna. Del resto ne sapeva così poco del gruppo di Leonard che non poteva dare un giudizio. Forse erano solo vittime della paura proprio come lo erano stati i pupilli di Xavier in passato. Forse. O forse erano veramente dei terroristi anche se guardandolo non lo avrebbe mai creduto possibile.

Era giovane, forse poco più grande di quando lui aveva cominciato ad essere l’Uomo Ragno. Era un ragazzino che ad un certo punto si era ritrovato con quell’aspetto o forse era nato così, proprio come Nightcrawler. Si ricordò di quando adolescente veniva emarginato dai suoi compagni e vessato continuamente con angherie e crudeltà di ogni tipo. Ricordò le pesanti umiliazioni inflittegli da Flash ed i suoi amici.

Se per lui era stata dura, per Leonard doveva essere stato un vero e proprio dramma. Sapeva guidare un aereo e contro i terroristi aveva agito con una certa prontezza. Aver imparato quelle cose alla sua età significava aver in tutti i modi tentato di sfuggire al proprio destino.

“Provaci ancora Sam e la Maledizione dello Scorpione di Giada sono tra i miei preferiti in assoluto.” Rispose alla fine.

“Il dormiglione. Comunque preferisco i film di Mel Brooks.”

“Concordo.”

Si scambiarono un sorriso ed entrambi, ognuno nella propria mente, pregò che quella storia si risolvesse nel migliore dei modi possibili.

 

 

Quartier Generale della Polizia, Police Plaza 1 – Giovedì, ore 2.45 p.m.

 

Peter Suschitziky lanciò un occhiata a Perkins che scrollò le spalle. Il superiore pareva costernato almeno quanto il tenente di mezza età che continuava a fissare la parete. L’ospedale aveva chiamato ed ora sapeva che doveva dare la caccia ad un omicida e non solo ad un killer di criminali. Non aveva esternato in alcun modo i propri sentimenti, il suo volto era una gelida maschera, come sempre nei momenti più difficili.

“Nguy Iki non è il nostro uomo.”

Cassio Affelby, seduto vicino a Braddy O’Neil aggrottò le sopraciglia mentre quest’ultimo pareva capire perfettamente il ragionamente del collega che alzatosi in piedi prese a camminare lentamente avanti ed indietro nella piccola ed affollata stanza.

“Noi stiamo cercando un uomo di incredibile freddezza, ben addestrato e disciplinato. Nguy è crollato troppo in fretta e troppo facilmente li dentro. No, non credo sia lui.”

“Un impressione è un po’ troppo poco per escludere un sospettato.” Tentò di protestare flebilmente Chester Perkins, che portava sul volto i segni di una stanchezza che aveva rinunciato a nascondere.

“Non dico che non dobbiamo continuare ad indacare su di lui ma… il mio istinto mi dice che non è lui. Affelby… puoi ripetermi cosa ha rilevato lo C.S.I. dai campioni presi nel punto in cui l’assassino di Mansel è atterrato fuggendo da noi?”

Cassio schiarì un secondo la voce e poi, leggendo uno dei fogli che da diversi minuti teneva in mano:

“Al laboratorio è stato rilevato che il campione di grammi 0,8 rinvenuto sulla scena del crimine, è un particolare polimero appartenente alla categoria dei così detti alti polimeri, del tipo amminoplastico con elevato grado di policondensazione e peso molecolare. Tale composto reagirebbe agli impulsi elettrici di debole intensità cambiando la propria forma e ritornando a quella originale al passaggio di un nuovo impulso e sembra dannatamente resistente. I nostri dicono che sembrerebbe parte di un insieme più grande e presumibilmente si è staccato in seguito, forse, ad un colpo di arma da fuoco che deve averne indebolito la struttura. Indovinate un po’? Su questo tipo di polimero abbiamo ritrovato riscontro nel database della C.I.A. e dello S.H.I.E.L.D. anche se, ovviamente, le informazioni sono riservate.”

“Oh cazzo… Fece Braddy storcendo la bocca. Se ci sono di mezzo loro allora stiamo freschi. Sapete tutti quanto sono disposti a collaborare con le forze dell’ordine. I loro segreti li tengono tali e se abbiamo a che fare con teconologia sviluppata dai loro laboratori allora siamo proprio al capolinea.”

“Non me ne frega nulla… Rucker aveva pronunciato quelle parole con fredezza preoccupante Dovessi andare di persona da Nick Fury mi farò dire quello che voglio. Se gli hanno sottratto la tecnologia, se c’è un loro agente impazzito o se tutta questa storia fa parte di qualche loro piano voglio saperlo.”

“Non voglio contrariarti, fece Peter Suschitziky ma non sarà così facile. Se davvero c’è un loro coinvolgimento allora possiamo considerare l’indagine bella e che chiusa. Troveranno un capro espiatorio e se non ci starà bene, ci sistemeranno in altro modo e tu sai che quella gente non scherza affatto. E tu cominci ad avere dei sospetti precisi. Non hai parlato di un agente impazzito a caso…”

“L’addestramento di quel tipo lo farebbe presupporre e poi c’è una cosa che ora mi comincia a sembrare evidente e prima mi era sfuggita: i riferimenti religiosi; chi aveva manie religiose, legami con lo S.H.I.E.LD. ed uccideva quelli che reputava alla stregua di criminali.”

Nessuno rispose subito. Tutto sembrava immobile in modo irreale mentre un angosciante pensiero cominciava ad essere condiviso da tutti i presenti. Braddy vinse per primo la paura e dette la risposta: “Il mangia peccati.”

“Si. Abbiamo un killer con manie religiose, addestramento di tipo superiore e sappiamo indossare una qualche sorta di protezione frutto di un tipo di tecnologia su cui sappiamo esserci dossier riservati dei servizi segreti. Un caso? Il primo Mangia Peccati era il risultato di un esperimento andato a male dello S.H.I.E.L.D. la cui esatta natura non è certa e di cui ci hanno detto poco. Forse potrebbe esserci stato un secondo esperimento andato a male. Forse si tratta di qualcuno dell’ambiente che ha deciso di prenderlo a modello o forse è la copertura per qualcosa d’altro, anche se non credo. Quello che so è che Arthur Stacy ha dato alla nostra Task Force pieni poteri e il suo appoggio incondizionato e che anche il Sindaco è dalla nostra. Quindi io dico di sfruttare tutta l’influenza di cui sembriamo al momento godere, chiedere ai servizzi segreti spiegazioni, vedere chi si fa avanti e cosa ci risponde.”

Ci fu un unanime mormorio d’approvazione perché anche se un po’ rischioso, il gioco che voleva tentare Rucker poteva aiutarli a fare un po’ di chiarezza in quella situazione incredibilmente intricata.

 

Rucker schizzò letteralmente fuori dal quartier generale e si fiondò dentro la propria auto. Erano passati venti minuti dalla fine della riunione quando richiamò Kaine che l’aveva cercato.

Non aveva sentito i notiziari e quando glielo aveva detto per poco il suo cuore non gli si era arrestato nel petto. Era stato così disperatamente preso da quanto accadeva da ignorare tutto e tutti. Si dette dello stupido per questo.

 

 

Aereoporto Internazionale J.F.K., New York City – Giovedì ore 3.42 p.m.

 

 

Superare i giornalisti non era stato facile ma i poliziotti erano riusciti ad ottenere un corridoio privileggiato per i familiari dei passeggeri. Rucker era riuscito a passare grazie al suo distintivo ed era poco distante da M.J. e Kaine che lo precedevano a distanza di qualche metro, da lui separati da una fila di persone altrettanto trafelate e preoccupate.

Quanto accadde nei successivi istanti fu rapido e piuttosto confuso e nessuno sa dire esattamente come si svolse se non che ad un certo punto lo videro lì, che stava parlando con un uomo piuttosto alto. Lui, quasi istintivamente si voltò verso di loro e fu Mary Jane, dopo essere rimasta per qualche istante congelata da quello sguardo a corrergli incontro per prima:

“Peter!” Fu l’unica cosa che disse mentre lo stringeva tra le sue braccia, quasi a sincerarsi che fosse reale e non un apparizione…

 

 

Fine episodio.